Ripensare il management (Paolo Milior)
Il possesso di “competenze di efficacia” per la gestione di aziende produttive e commerciali market oriented, caratteristiche di un management di tipo verticistico affermatosi in anni dove gli scenari e i mercati erano molto più prevedibili e lineari, oggi non è più sufficiente. Evidenze fattuali e statistiche di persistenti squilibri economici, ambientali e sociali che spesso si presentano con picchi inediti o con fenomeni del tutto nuovi rendendo i riferimenti instabili, non predicibili e con una complessità, interdipendenza e connessione crescente, spingono verso un cambiamento che rischia di essere subito piuttosto che governato. In questo senso le classiche competenze manageriali di tipo economico, basate su standard e serie storiche e relegate al vertice aziendale, appaiono sempre più insufficienti per orientarsi di fronte a volumi esponenziali di dati, per valutare molteplici variabili, per aggiornare continuamente la dotazione tecnologica e i processi produttivi, per gestire reti relazionali sempre più fitte e ampie.
“Nella vita quotidiana interpretiamo costantemente il nostro mondo: non lo facciamo solo nella riflessione teorica, ma soprattutto attraverso i pensieri, le emozioni e i comportamenti di tutti i giorni… queste interpretazioni spesso sono anche la nostra prigione, in quanto prospettive unilaterali, circoscritte, superficiali… La chiamo la mia caverna” (R. Lahav, Oltre la filosofia). Ebbene la “caverna” di Lahav non è solo personale, ma può essere anche delle organizzazioni, delle aziende nel senso che la “visione” del vertice, del singolo manager o di gruppi ristretti di dirigenti che con precise direttive un tempo gestivano efficacemente “a cascata” tutta la macchina produttiva aziendale con standard e procedure sufficientemente stabili, oggi rischia di diventare una “bolla cognitiva” che può risultare inadeguata a “leggere” realtà che mutano a una velocità alla quale non siamo abituati. Una comfort zone basata solo su parametri economici e/o su serie storiche fa fatica a “metabolizzare” il nuovo attraverso i soliti modelli gestionali rigidi e chiusi. Senza analisi ad ampio spettro, visione strategica, adeguatezza tecnologica, flessibilità, contaminazione e ibridazione di conoscenze, soluzioni innovative e creative, reti partenariali multilivello, il rischio reale è accorgersi del cambiamento quando ormai è troppo tardi, oppure avviare imprese avendo un piano strategico retrospettivo, anziché prospettico con conseguenze immaginabili sull’investimento.
Spesso aziende, enti e lavoratori hanno l’illusione che il bagaglio di conoscenze acquisito possa durare, con poche variazioni, per l’intera vita lavorativa. Orbene per rompere cicli viziosi è necessario prevedere degli “spazi di apertura” esperienze di confronto tra prospettive diverse per favorire la maturazione di livelli superiori di consapevolezza, per accorgersi della temperatura dell’acqua prima di fare la fine della rana.
La fluidità dei contesti attuali rende inadeguati i processi rigidi, standardizzati e unidirezionali con uno specifico momento di inizio e fine. Occorre assorbire il nuovo e il diverso, rendendo “porosi” i confini dell’organizzazione. Non è pensabile un cambio repentino, una modellazione organizzativa nuova da attuare tout court. Piuttosto occorre fare i primi passi verso processi trasformativi che vanno sperimentati per diventare prassi, secondo una “personalizzazione” legata alle caratteristiche dell’impresa e/o alle finalità dell’organizzazione. Avviando processi che tendono a farsi circolari in una dinamica a spirale ricorsiva nella quale la fine di un ciclo coincide con l’inizio di uno nuovo. Dove le azioni non hanno un’unica direzione, ma possono anche retroagire per riprocessare e arricchirsi di nuovi elementi nel quadro di un costante scambio metabolico-cognitivo-relazionale. “Definisco quindi come ricorsivo ogni processo attraverso il quale un’organizzazione attiva produce gli elementi e gli effetti che sono necessari alla sua stessa generazione o esistenza, processo circuitario attraverso il quale il prodotto o l’effetto ultimo diviene elemento primo e causa prima. La nozione di anello appare quindi assai più che retroattiva: è ricorsiva … ricorsività, generatività, produzione-di-sé, ri-generazione e (di conseguenza) riorganizzazione sono altrettanti aspetti del medesimo fenomeno centrale.” (E. Morin, Il metodo 1. La natura della natura).
Questi processi si attivano attraverso un costante confronto dialettico-dialogico in grado di intercettare le differenze, le variazioni che non possono essere più considerate “stonature”, “disallineamenti” rispetto alla norma/regola, ma “semi” del nuovo e come tali considerati nel quadro di una cornice di riferimento condivisa che riesca a processarli facendoli diventare nuova linfa per l’organizzazione aziendale o istituzionale. Le competenze manageriali del futuro passano dal “saper fare” al “saper essere”, perché la sfida della complessità lo richiede sempre più. Gli spazi di indagine/esplorazione/confronto abilitano la co-costruzione del qui e ora, della missione del gruppo, del fare, dell’agire. Favoriscono lo sguardo al dopo, al costruire ora le premesse del domani da cui deriva un nuovo senso di appartenenza, un nuovo modo di approcciarsi al lavoro in cui le persone si sentano riconosciute, come portatrici di valore, autonomia, consapevolezza e responsabilità, capaci di generare loro stesse energie, legate a emozioni o visioni da realizzare. Questi spazi discorsivi rappresentano il cuore pulsante dell’ecosistema aziendale e dei processi partecipativi, trasformativi e generativi e richiedono la formalizzazione di un proprio status da parte del titolare dell’azienda o dell’organizzazione aziendale che allestisce un luogo dedicato al confronto dialettico delle tematiche di interesse comune.
Filosofia e ragione aziendale (Roberta Lanfredini)
Secondo Platone, l’anima umana si articola in tre dimensioni fondamentali – la parte razionale, quella irascibile e quella appetitiva – che, se reinterpretate in chiave aziendale, offrono una metafora efficace per comprendere le dinamiche organizzative e le competenze richieste per attualizzare la gestione aziendale.
Il Profilo razionale rappresenta la capacità di pensare in modo critico e strategico. Individui con una forte componente razionale eccellono nell’analisi dei dati, nella pianificazione a lungo termine e nell’identificazione di opportunità e rischi. Per implementare questo profilo, le organizzazioni possono investire in programmi di formazione sul pensiero critico-analitico, favorire la trasparenza decisionale e promuovere strumenti di scenario planning che aiutino a mitigare i bias cognitivi.
Il Profilo irascibile non riguarda tanto l’irascibilità nel senso negativo, ma l’energia, il coraggio e la capacità di trasmettere valori condivisi. Questo profilo riguarda la parte intangibile di ogni azienda, lo “spirito” che accomuna e lega le persone che vi lavorano e che vi si identificano dando senso al loro agire. I leader dotati di questo profilo sono in grado di ispirare e unire i team, creando una cultura organizzativa forte e coesa. Lo sviluppo di questo profilo può essere supportato da programmi esplorino, condividano e co-costruiscano – valorizzandola – la narrazione dei valori aziendali.
Il Profilo appetitivo si focalizza sul benessere organizzativo e sulla capacità di gestire le dinamiche relazionali. Chi possiede un forte profilo appetitivo contribuisce a creare ambienti di lavoro motivanti, in cui il benessere individuale si traduce in performance elevate e in una gestione efficace dei conflitti. L’implementazione di questo profilo può avvenire attraverso politiche di welfare aziendale, iniziative per la flessibilità lavorativa e sistemi di riconoscimento che valorizzino il contributo umano.
Un modello di leadership efficace deve riconoscere l’interdipendenza tra questi tre profili. La sintesi tra pensiero critico, capacità di ispirare e attenzione al benessere porta alla creazione di un’azienda resiliente e pronta a innovare. Le organizzazioni possono favorire questa integrazione promuovendo ambienti di apprendimento continuo, facilitando lo scambio interdisciplinare e sviluppando strumenti che permettano di monitorare e rafforzare queste competenze in modo sinergico.
Implementare i profili filosofici significa adottare un approccio olistico alla gestione, dove l’intelletto, la passione e l’attenzione alle relazioni costituiscono le leve per una trasformazione organizzativa profonda e sostenibile finalizzate a rendere armonica l’entità “azienda”. Questo concetto è la chiave di volta per intercettare le attuali dinamiche di cambiamento che richiedono a entità organizzative complesse come le aziende, di operare in equilibrio similmente agli organismi umani (essendo costituite da persone che comandano – o almeno dovrebbero comandare – su macchine e algoritmi). Queste entità non sono semplicemente meccanismi produttivi perché, a fronte del mutamento del contesto, il modello organizzativo di tipo gerarchico-esecutivo risulta non più idoneo a intercettare e ad adeguarsi alle molteplici dinamiche. Laddove – viceversa – diventa cruciale la partecipazione attiva e consapevole di tutte le persone addette affinché ciascuna azienda possa sviluppare pienamente la propria capacità cognitiva e adattiva
Visione olistica ed ecosistemi organizzativi (Lucio Scognamiglio)
Gli assetti più adatti ad affrontare il nuovo pongono quindi al centro la Persona in relazione con le altre. In questa ottica le organizzazioni aziendali o istituzionali che continuano a considerare la percezione individuale (soprattutto se posta al vertice) come unico “processore” di conoscenza e che tengono insieme le varie singolarità di chi lavora al loro interno solo con regole, procedure e vincoli economici, rischiano di subire anziché affrontare complessità, molteplicità, incertezza e instabilità. Negli attuali contesti i sistemi collaborativi “a molte menti” risultano infatti più flessibili e performanti e quindi più “capaci” a gestire l’inatteso operandoti su livelli e profili differenti tenuti insieme da una cornice di senso comune, condivisa e risignificata.
L’altrui punto di vista diventa in questa ottica, un irrinunciabile apporto con il quale occorre misurarsi per far evolvere e migliorare il proprio posizionamento cognitivo. Occorre altresì essere consapevoli che non ci sono prassi consolidate e sperimentate in azienda o in altre organizzazioni, utili come riferimento pratico da seguire. Siamo di fronte un percorso sperimentale che molto probabilmente è un’ibridazione di vecchio e nuovo. Gli assetti organizzativi “a molte menti” hanno come riferimento gli ecosistemi naturali che presentano importanti caratteristiche adattive e autopoietiche vitali per operare in contesti mutevoli. Evidentemente non si tratta di una traslazione tout court perché i soggetti economici inevitabilmente devono considerare una serie di elementi peculiari come il profitto, la competizione, la produttività, il mercato ecc. Cionondimeno alcuni elementi come collaborazioni, scambi alla pari, alleanze, condivisione e un continuo riallineamento possono essere mutuati vantaggiosamente in una visione organica ed ecosistemica “a molte menti”.
In questo senso possiamo riprendere De Toni che fa derivare le sue riflessioni da Morin: “Evitare il riduzionismo significa evitare il tentativo di porsi l’obiettivo di una rappresentazione semplice, finalizzata alla produzione di decisioni, di una realtà altrimenti complessa. Il modello classico prevede che l’organizzazione sia semplice, in un ambiente stabile e in un futuro prevedibile sulla base di proiezioni di serie storiche … Il modello complesso si basa invece sull’idea che l’organizzazione sia un sistema complesso adattativo, in un ambiente turbolento e in un futuro prevedibile solo in parte grazie allo studio dei megatrend. In questa situazione il successo deriva dal non-equilibrio e dal cambiamento, come la sopravvivenza per i sistemi complessi adattativi … Per quanto riguarda la natura dell’organizzazione, nel modello classico si considera l’organizzazione come un sistema a una mente tipica dei modelli biologici, mentre nel modello complesso è considerata un sistema a molte menti … In una prospettiva di auto-organizzazione, i singoli elementi contribuiscono all’assorbimento della complessità tramite un processo bottom-up. Le singole persone, con i loro vari ruoli, acquistano sempre più importanza e spesso dimostrano di avere la capacità di una maggiore comprensione della variabilità esterna.” (Alberto Felice De Toni, Teoria della complessità e implicazioni manageriali: verso l’auto-organizzazione).
Le persone sono quindi centri relazionali autonomi inseriti in ecosistemi autopoietici: in buona sostanza il continuo scambio collaborativo/metabolico sia interno che esterno a un sistema organizzativo poroso favorisce uno spontaneo “autoapprendimento” del medesimo non vincolato alla formalizzazione gerarchica propria degli assetti verticistici. Sono queste le motivazioni che spingono sempre più imprese a sperimentare modelli di leadership distribuita che consentono di attivare tutte le intelligenze endogene all’organizzazione (organismo) per processare meglio le tante sfaccettature del cambiamento che da evento sporadico è ormai elemento costante.
Di fronte all’eccezionalità che si è fatta norma, il management è quindi chiamato a integrare le proprie “competenze di efficacia” di taglio prevalentemente economico-gestionale con altre di tipo umanistico ponendo al centro le persone che da risorse strumentali alla produzione di beni o servizi diventano “agenti intelligenti di produzione” in grado di attivare processi trasformativi e generativi al fine di:
- “Liberare” le energie endogene dell’organizzazione per potenziarne la percezione e la reattività necessaria a intercettare i segnali deboli e adattarsi velocemente ai cambiamenti;
- Favorire comportamenti di piena appartenenza e cittadinanza professionale attiva per dare un contributo consapevole alle grandi trasformazioni che le organizzazioni stanno affrontando,
- Rafforzare la percezione dei mutamenti in atto, la “capacità di lettura” dei fenomeni emergenti per la ricostruzione del senso aziendale all’interno del quale si inserisce quello individuale.
Nuovi “ancoraggi” (Lucio Scognamiglio)
Quindi cosa fare in pratica? Occorre acquisire innanzitutto consapevolezza sulle peculiarità della nostra epoca che richiede alle organizzazioni di porsi nelle condizioni per percepire le dinamiche in corso, di valutarne impatto e opportunità e di assumere il posizionamento strategico più adatto alle proprie caratteristiche per adeguarvisi vantaggiosamente. Tutto ciò implica che partendo dalla (iper)complessità degli scenari è possibile farne derivare alcune conseguenze che rappresentano altrettanti “ancoraggi” su cui attualizzare un approccio di trasformazione organizzativa che da evento sporadico diventa costante adeguamento.
- Il primo ancoraggio è quello presupposto e riguarda la necessità di acquisire come dato fattuale e immanente (suffragato da evidenze statistiche) la crescente complessità, interdipendenza e interconnessione di realtà collettive e individuali. Le azioni e le decisioni delle quali si propagano con una intensità, un reciproco impatto e una velocità che non ha recente riscontro storico. Questa evidenza non può essere tralasciata nello sviluppo teorico-strategico delle attività direzionali che evidentemente non possono essere più impostate solo sul consolidato (inteso come insieme di conoscenze, tecniche e pratiche classiche acquisite) prescindendo da una “governance prospettica” intesa non come postura cognitiva posizionata nel contingente (e nelle sue immediate vicinanze), ma come visione allargata e protesa verso possibili scenari futuri che coinvolga non solo del vertice, ma dell’intera organizzazione al fine di “introiettare il divenire” nella mission aziendale per rendere l’offerta di servizi, prodotti, funzioni coerente con le dinamiche in atto.
- Un secondo ancoraggio riguarda la necessità di molte e diversificate conoscenze e competenze da rendere disponibili in ambito organizzativo; non solo quelle legate alle correnti specializzazioni e alle verticalizzazioni produttive o funzionali, ma anche quelle trasversali per favorire dialogo e ibridazioni sia tra chi vi lavora sia con gli stakeholders al fine di creare le condizioni di presupposto alla trasformazione e all’innovazione. La “dotazione umanistico-cognitiva” di ogni organizzazione (che è fatta di persone prima ancora che di diritti, doveri e comportamenti attesi, abilità, saperi e attrezzature) è ancora più importante di quella tecnologica che ne è una conseguenza, anzi come elemento propedeutico questa dotazione dovrebbe essere continuamente curata e alimentata.
- Il terzo ancoraggio discende dal secondo, considerato che il contributo professionale dei membri dell’organizzazione è – piuttosto che meramente esecutivo – sempre più valoriale, creativo e generativo di miglioramento dell’offerta con nuove soluzioni, ciascuno deve perciò essere messo nella condizione di rendere la propria prestazione professionale in modo consapevole, pieno, appagante e aperto nel quadro di una “cornice di senso condivisa”. La focalizzazione del “senso” (che non può essere imposta ma viene “risignificata” dai singoli che devono messi nella condizione di partecipare attivamente al processo di ricerca) è una leva potente che opera non solo a livello collettivo, ma anche e soprattutto a livello individuale. Esplorare e identificare il senso di ciò che si fa (che non è un dato solo economico, né acquisito una volta per tutte, né necessariamente quello del titolare) è essenziale per l’apporto generativo di ogni membro dell’organizzazione.
- Considerato che i processi produttivi sono quasi tutti interrelati e interdipendenti, la relazionalità è elemento cruciale sia a livello individuale che a livello aziendale. Evidentemente un modello chiuso e autoreferenziale è il meno adatto ad affrontare la complessità nelle sue tante forme. Da qui occorre pensare alle organizzazioni come aggregati dai confini porosi che scambiano e osmoticamente metabolizzano, tanto all’interno quanto all’esterno. Perciò ci si riferisce al modello ecosistemico a più menti come quello più adatto a questo scopo. Modello da sperimentare e graduare in base alle specifiche caratteristiche aziendali di ogni impresa o entità produttiva. Ciò comporta una diversa impostazione, un mutamento genetico degli assetti, un’ibridazione tra verticalizzazione e trasversalità gerarchica che deve puntare a una “fitta connettività organizzativa”. Questo quarto ancoraggio non elimina la competizione ma favorisce – similmente a quanto accade in ogni sistema vivente – collaborazione ad ampio spettro, adattatività ai mutamenti, flessibilità, autopoiesi; dinamiche positive esistenti anche in ambito economico, proprio come dimostra la vasta letteratura sui Distretti industriali. Il rafforzamento del legame orizzontale tra elementi diversi non elimina ruoli e responsabilità di vertice, ma il titolare/responsabile/manager è chiamato a “fare spazio” per favorire l’incrocio e la sintesi creativa di intelligenze diverse, assicurando così le condizioni per un equilibrio e un’armonia in continuo divenire e per un benessere complessivo dell’organizzazione che (come organismo vivente) opera meglio se i suoi componenti stanno bene.
- Ulteriore considerazione, articolazione della precedente, riguarda la percezione negli attuali contesti. Quella individuale del soggetto percipiente come unico “processore cognitivo” del giudizio e della conoscenza non è più sufficiente. Il prodotto/servizio finale è quasi sempre frutto di competenze e saperi diversificati che si intersecano, si ibridano in continuazione proprio per la costante ricerca di livelli superiori e personalizzati dell’offerta che deve adeguarsi a contesti mutevoli, esigenti, effimeri e frammentati. Per cui il quinto ancoraggio riguarda la “introiezione de “l’Altro da sé” come elemento essenziale del processo percettivo e cognitivo” a livello tanto collettivo che individuale.
Laboratori dialogico-dialettici (Lucio Scognamiglio, Elena Francescon)
Esiste una consolidata esperienza dedicata alla ricerca di senso e di significato tramite la partecipazione attiva dei membri di una comunità che si confrontano su tematiche e su problematiche di interesse comune che ha come modello teorico di riferimento la Philosophy for Children (P4C), ideata da Matthew Lipman. È una metodologia educativa che mira a sviluppare il pensiero complesso, creativo, critico, e caring nei bambini attraverso l’uso della domanda per attivare il dialogo e l’indagine. Si basa sull’idea di origine socratica che la filosofia possa essere un mezzo per stimolare la riflessione, il confronto e la crescita personale fin dalla tenera età. I benefici documentati riguardano un rafforzamento delle capacità cognitive, emotive e sociali nonché della capacità di ascolto e l’empatia; positive sperimentazioni si sono avute anche in ambiti diversi da quello scolastico soprattutto in organizzazioni complesse come quelle aziendali o pubbliche.
Orbene in questa sede proponiamo una rivisitazione in chiave aziendale/organizzativa della P4C con i “Laboratori dialogico-dialettici” per sperimentare un’esplorazione profonda dei concetti, delle tematiche e delle problematiche del fare impresa (intesa in senso ampio riguardante tutte le realtà produttive operanti o meno a scopo di lucro) di utilità strategica per far acquisire all’organizzazione una percezione prospettica derivante dalla problematizzazione delle tematiche di interesse comune con uno sguardo verso il futuro. Questi laboratori, laddove partecipati con sincera autenticità, onestà intellettuale e senza pregiudizi, sono generativi di potenza cognitiva e relazionale. Il confronto su termini significativamente densi, implica una valutazione critica e autocritica del posizionamento prospettico (proprio e altrui) che fa prendere in considerazione profili semantici, interpretativi o valutativi dei temi “esplorati” che altrimenti rimarrebbero esclusi (perché non “visti”) dalla sfera percettiva personale e collettiva consentendo quell’ “introiezione di futuro” necessaria alla governance di impresa per attuare strategie prospettiche.
La cifra dei Laboratori dialogico-dialettici è la stringente spersonalizzazione, restando il confronto sui concetti (senza indagare i giudizi e neanche i profili comportamentali dei singoli o quelli psicologici e/o psicopatologici delle organizzazioni) induce alla scoperta del nuovo e alla “ri-creazione” della cornice di senso tanto a livello individuale che collettivo favorendo consapevolezza e coerenza tra tre attività, spesso tenute distinte laddove sinergicamente e intimamente connesse: i pensieri, le parole e le azioni. Allinearle tramite il confronto concettuale favorisce processi trasformativi individuali e collettivi.
I Laboratori dialogico-dialettici rappresentano quindi una nuova dimensione funzionale dove i cinque ancoraggi di cui sopra (“governance prospettica”; “dotazione umanistico-cognitiva”; “cornice di senso condivisa”; “fitta connettività organizzativa” e “l’Altro da sé come elemento essenziale del processo percettivo e cognitivo”) trovano formale dignità, riconoscimento, dimora e confluenza. Spazi dove ne è consentita l’esperienza diretta e personale attraverso la problematizzazione e l’esplicitazione di senso riferita a tematiche cruciali per l’ente/impresa. Questi momenti di ricerca consentono un riscontro e un arricchimento della visione organizzativa lavorando sulle domande provenienti dal basso piuttosto che sulle risposte provenienti dall’alto. Con questo approccio ogni membro dell’organizzazione diventa quindi un sensore attivo e partecipe che tramite il confronto potenzia le capacità cognitive proprie e del sistema consentendo di intercettare i segnali anche deboli di cambiamento che altrimenti non verrebbero avvertiti se non quando rischia di essere troppo tardi.
Il confronto concettuale è uno degli strumenti fondamentali per l’attivazione dei processi trasformativi che vale come momento esperienziale condiviso insieme agli esercizi di “problem finding” (capacità di vedere i problemi prima di risolverli). Approfondimenti di significati anche discordanti che diventano oggetto del confronto dialogico-dialettico e quindi di contaminazione; di esperienza di decentramento e di mobilitazione discorsiva attraverso l’introiezione del “discorso dell’Altro”. “Un campo istituzionale o una organizzazione si espande e diviene generativa quando sa preservare la circolazione dei discorsi, ovvero quando non cristallizza la sua identità in un solo discorso” (Massimo Recalcati, Il vuoto e il fuoco). Tutto ciò fa evolvere il gruppo/comunità verso un percorso congiunto che non prevede una conclusione condivisa al termine dello spazio di confronto, ma “lascia aperta” la riflessione sia a livello individuale sia a livello relazionale (con dinamiche dialettiche, ricorsive, reiterative, a volte anche conflittuali o emotivamente coinvolgenti). Ciò favorisce la metabolizzazione profonda dei concetti trattati stimolando un’evoluzione trasformativa non immediata e non misurabile ma che esplica i sui effetti nel medio periodo facendo evolvere il contesto organizzativo verso un sistema non più solo verticistico ma trasversalmente funzionante “a più menti” riferite a quelle dei membri dell’organizzazione attivamente coinvolti.
Il modello ecosistemico ha natura squisitamente umanistica che non può essere imposta o prescritta con regole/direttive da seguire, ma piuttosto è metodo, visione, senso e soprattutto partecipazione attiva delle persone da coinvolgere in percorsi sperimentali che funzionano come Laboratori dialogico-dialettici. I Laboratori, che costituiscono il vero perno per il cambio prospettico che i nuovi scenari impongono, sono quindi cruciali per il passaggio da un tipo di organizzazione “semplice” a un tipo di organizzazione “complessa”, secondo la definizione di De Toni di cui sopra. Questa transizione rappresenta un percorso trasformativo importante con proprie criticità in quanto i Laboratori sono organismi sperimentali che operano nell’ambito di un’organizzazioni produttive con proprie logiche operative. Sono entità fragili (almeno inizialmente) che devono avere un proprio “statuto” inteso come riconoscimento formale nell’ambito dell’organigramma funzionale dell’organizzazione affiche siano tutelati non solo nel perseguimento della loro finalità epistemologica (quindi senza essere oggetto di strumentalizzazioni), ma anche e soprattutto siano tutelate le persone chi vi partecipano garantendo loro libera espressività e libero pensiero come membri di una Comunità di ricerca. Al tempo stesso l’atto istitutivo di un Laboratorio dialogico-dialettico all’interno di un’organizzazione complessa deve contenere il decalogo delle buone maniere dell’Ascolto una sorta di Galateo del Discorso che indichi le modalità di partecipazione alla Comunità di ricerca (rispetto dei tempi, continuità logica, ascolto delle argomentazioni, astensione dal giudizio, spersonalizzazione, rispetto etico-sociale…).
Per delineare le caratteristiche dei Laboratori dialogico-dialettici e del Manager della complessità inteso come “guida epistemologica” (vedi dopo) che accompagna nelle esplorazioni/confronti concettuali la Comunità di ricerca, è utile partire dall’esperienza dei tre corsi di perfezionamento di Filosofia in Pratica (l’ultimo dei quali in svolgimento) attivati dal Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze dall’anno accademico 2022-2023 per l’appunto basati sulla P4C di Lipman. Il quadro di sintesi e le caratteristiche principali di questa metodologia sono stati ripresi da: Chiara Gottardo, Educazione alla sostenibilità: possibili proposte di P4C https://thesis.unipd.it/retrieve/f6e6f8dd-d04a-4a9a-bde4-2b9e260f9f69/Gottardo_Chiara.pdf.
Di seguito i principali passaggi della P4C con i tratti da mantenere e quelli che potrebbero essere differenziati in relazione all’attivazione dei Laboratori dialogico-dialettico all’interno di realtà aziendali.
- Comunità di ricerca
Il Laboratorio dialogico-dialettico è una comunità di ricerca caratterizzata dal pensiero multidimensionale, e` quindi a tutti gli effetti una comunità “pratica” che, come quella intesa dal filosofo americano, viene generata dalla lettura dei testi stimolo, promuovendo la ricerca e la riflessione condivisa e accrescendo le risposte eterogenee funzionali alla creazione di creare un vero e proprio flusso dialogico-dialettico orientato verso la produzione di significati condivisi. Rimangono inalterate tutte le altre caratteristiche peculiari: l’inclusione, la partecipazione, la cognizione condivisa, l’abilità d’ascolto, le relazioni faccia a faccia, la ricerca del significato, la formulazione di domande, i sentimenti di solidarietà sociale, la deliberazione, l’imparzialità, i modelli, il pensiero autonomo, le provocazioni, la ragionevolezza, la lettura, la formulazione di domande, l’accettazione dell’errore e l’astensione dal giudicare le altrui opinioni. Rispetto a quanto avviene nelle classi, allorché si opera con adulti con ruoli, poteri e responsabilità diverse e consolidate, la partecipazione deve essere volontaristica e occorre predisporre una cornice di riferimento formalizzata che riconosca questo spazio di libera espressione e ricerca all’interno dell’organizzazione. - Testi pre-testi
I pre-testi sono funzionali alla finalità della Comunità di ricerca. Nella P4C vi sono i racconti che fanno stimolo per la riflessione e la formulazione di domande soggettive ed estemporanee. In essi vi è una sospensione di giudizio che lascia spazio all’interpretazione e al pensiero spontaneo. Con riferimento ai Laboratori dialogico-dialettici ci troviamo in tutt’altra dimensione. I testi pre-testi utilizzati per avviare la ricerca provengono dalle tematiche/questioni afferenti agli scenari o ai contesti che mutano e in cui opera l’ente o l’impresa. In altri termini la capacità speculativa della Comunità di ricerca non prende avvio da testi fantastici ma tematiche e problematiche assolutamente pregnanti afferenti alle dinamiche di cambiamento in atto. Alla Comunità di ricerca operante all’interno del Laboratorio dialogico-dialettico, viene richiesto di esplorare con pensiero critico, spontaneo e con sospensione di giudizio i fenomeni e i relativi concetti proprio per ampliare la percezione di quello che sta accadendo attraverso il confronto dialogico e dialettico. Questo processo stimola i processi trasformativi e rafforza la capacità cognitiva a livello individuale e collettivo consentendo di migliorare quella complessiva dell’organizzazione che in tal modo sviluppa al proprio interno non solo gli anticorpi per difendersi dai condizionamenti, ma anche e soprattutto la capacità relazionale, creativa e adattativa di operare a livello sistemico. In sintesi i testi pre-testi non hanno finalità pedagogica rivolta a giovani in formazione, ma finalità strategica e relazionale rivolta ad adulti che operano all’interno di organizzazioni produttive o istituzionali. - Dialogo
Il dialogo dà la possibilità al pensiero di accrescere verso livelli sempre superiori e per questo il modello di pensiero risulta essere dinamico, poiché la processualità del pensiero vede la sua espressione in percorsi differenti. “Il pensiero complesso e` preparato a riconoscere i fattori che determinano i preconcetti, i pregiudizi, e l’autoinganno. (Esso) implica un pensare sulle proprie procedure ed allo stesso tempo, pensare i propri contenuti. [..] Quanto qui si definisce pensiero complesso include dimensioni ricorsive, metacognitive, autocorrettive e tutte quelle altre forme di pensiero che implicano una riflessione sulla propria metodologia mentre allo stesso tempo si applicano ad un contenuto.” (Mattew Lipman, Thinking in Education). I Laboratori dialogici-dialettici condividono pienamente la stessa finalità di un esercizio al pensiero che anziché venire sperimentato su bambini e adolescenti viene agito da adulti sempre attraverso le dimensioni critica, creativa e caring, che compenetrate e integrate fra loro, che dovrebbero creare un equilibrio tra sfera cognitiva e sfera affettiva del soggetto. - Valutazione
La competenza: “non e` uno stato ma un processo, e risiede nella mobilitazione delle risorse dell’individuo (conoscenze, capacita, atteggiamenti, ecc.) e non nelle risorse stesse” (Guy Le Boterf, Competenze trasversali). Nella P4C la valutazione al termine delle sessioni è essenziale non solamente per soffermarsi sul risultato ma anche per basarsi sul processo e sulle attività concrete ed osservabili. Per quanto riguarda i Laboratori dialogico-dialettici aziendali ci troviamo in una dimensione alquanto differente. Una valutazione a fine sessione non solo rappresenterebbe un giudizio sulla persona del Manager della complessità che come vedremo più avanti dovrebbe essere un dirigente con responsabilità organizzative, ma andrebbe ad evidenziare un riscontro immediato dell’esercitazione che sappiamo agisce con processi trasformativi i cui risultati si evidenziano nel medio periodo. Per questo motivo si potrebbero prevedere degli “indicatori” sia qualitativi che quantitativi votati in forma anonima dalla comunità di ricerca prima e dopo l’avvio di un ciclo di laboratori (progetti, partnership con stakehoder, collaborazioni con colleghi, innovazioni di processo o di prodotto, proposte di miglioramento, livello partecipativo alla vita aziendale …).
Se il primo passaggio critico nel percorso di transizione da organizzazione “semplice” a organizzazione aziendale “complessa” riguarda l’istituzione dei Laboratori, le altre criticità concernono la loro gestione, a chi si rivolgono e soprattutto in che misura l’esperienza dei singoli partecipanti al Gruppo di ricerca riesce a travalicare la sfera individuale per trasfondersi anche in quella aziendale. È bene chiarire che si tratta di un approccio innovativo che necessita di accettazione, metabolizzazione e adeguamento continui e i cui risultati sono peraltro difficilmente quantificabili al termine di un ciclo di laboratori. Sarebbe perciò velleitario pensare a una formula univoca, mentre è più realistico considerare i Laboratori dialogico-dialettici come percorso sperimentale a cui si partecipa su base volontaria.
Il punto nodale è chi gestisce i Laboratori e soprattutto chi vi partecipa. Ovviamente considerando la “dotazione filosofica” del facilitatore come presupposto imprescindibile, la questione è se debba trattarsi di una figura interna o esterna all’azienda. A parere di chi scrive è fondamentale che si tratti di un’iniziativa voluto dal management con responsabilità decisionali, organizzative e/o gestionali che – tuttavia – non è sufficiente dia semplicemente la sua approvazione al progetto di intervento in azienda. È indispensabile invece che il management sia direttamente coinvolto o come partecipante/i al Gruppo di ricerca, o come mediatore/facilitatore o come entrambi se si tratta di più persone. Da evitare è la scissione tra il Gruppo di ricerca e la sfera manageriale che deve partecipare in prima persona al processo e all’attività dei Laboratori.
Manager della complessità (Paolo Milior, Lucio Scognamiglio)
A questo punto ci si può domandare se un “Manager della complessità” possa avere, oltre la veste di facilitatore nei Laboratori, una sua ragion d’essere per un’organizzazione aziendale che da “semplice” desideri trasformarsi in “complessa”. Conviene pensare a un ruolo più ricco e significativo del manager che riesca a trarre dalle risorse umane dell’organizzazione che gestisce non solo le energie necessarie alle finalità dell’ente/impresa, ma anche le indispensabili significazioni per un loro apporto pieno e consapevole all’azienda. Per cui possiamo immaginare il Manager della complessità come una “guida epistemologica” che richiama la figura del maestro-insegnante ma anche che profondamente se ne differenzia avendo proprie specifiche peculiarità e finalità.
Anzitutto il Manager della complessità va a colmare quel “vuoto umanistico” lasciato dalle discipline tecnico-economiche, giuridico-gestionali orientate prevalentemente al controllo e ai risultati lucrativi e numerici che tralascia la cura della cornice di senso (collettiva e individuale) dei membri dell’organizzazione che viceversa è – come abbiamo visto – la base per una partecipazione attiva e consapevole delle persone all’ente/impresa ed è essenziale per il benessere organizzativo e il funzionamento ecosistemico. Il Manager della complessità opera con queste finalità in organizzazioni complesse (associazioni, enti, istituzioni, aziende) che hanno deciso di intraprendere un percorso trasformativo per affrontare con maggiore adeguatezza gli attuali contesti e adeguarvisi attraverso un percorso trasformativo reale e costante. Potrebbe essere considerato il “garante” delle finalità epistemologiche dell’organizzazione, presupposto di innovazione, evoluzione, stimolo e ricerca condivisa di nuova conoscenza e di nuovi significati funzionali alle finalità dell’ente/impresa. La sua figura eviterebbe di intraprendere iniziative di humanwashing che, similmente al greenwashing, rappresentano operazioni ipocrite dove il cambiamento diventa di sola facciata, anzi è deteriore con effetti deprimenti sugli apporti professionali e di discredito per i dirigenti.
Il Manager della Complessità rafforzerebbe con le proprie capacità la scelta strategica di avviare un reale processo trasformativo facendosi strumento cognitivo per l’azienda nel suo complesso, con un ribaltamento totale della postura abituale del manager che dal disporre dell’apparato organizzativo ne diviene dispositivo di conoscenza: “non è un erogatore di verità, ma allo stesso tempo, nella sua funzione di presidio del processo della ricerca e del progresso verso la verità̀ (o meglio, verso una elaborazione sempre più approfondita, raffinata e scandagliata dei significati con cui diamo senso all’esperienza) non si limita ad assistere al lavoro della comunità, ma la incalza, la sollecita, talora con implacabilità, spingendola a perseguire risultati migliori.” (Stefano Oliverio, Un modo socratico di andare oltre Dewey).
Come “guida epistemologica” il Manager della complessità giunge a ricoprire il ruolo di: “[…] co-ricercatore partecipe all’indagine svolta dalla comunità: un co-ricercatore con un ruolo di mediazione e di controllo sulla qualità̀ della ricerca stessa e sulla sua direzione […] Controllare non significa decidere o determinare i percorsi, bensì riconoscere e far riconoscere i punti cruciali, gli ostacoli epistemologici, le fallacie argomentative e logiche che possono deviarne il corso improduttivamente.” (Fabio Mulas, Philsophy for Children. Riferimenti teorici, curricolo e applicabilità).
La dotazione culturale del Manager della complessità diventa quindi un valore aggiunto per l’ente/impresa in termini di potenziamento cognitivo e relazionale che aumenta significativamente e a tutto tondo le “capacità” dell’intera organizzazione. Riuscire a sintetizzare due dimensioni spesso antagoniste tra loro: quella economicistica orientata al risultato con quella umanista più adatta alle relazioni e al dialogo orientato a intercettare complessità e innovazione, rappresenta un vantaggio differenziale inestimabile per organizzazioni complesse facendo sintesi tra elementi eterogenei che potenziano fortemente la capacità prospettica e operativa personale del manager e della collettività dell’ente/impresa.
